San Marco in Lamis è sempre un bel ritorno. Gargano, tappa sette. Non ricordo quante volte sono stato in questo piccolo borgo che racconta Medioevo ovunque, a partire dalla sua porta d’ingresso. Entrarci vuol dire sfiorare le rocce nude e aspre della valle di Stignano. Qui c’è il santuario di Santa Maria che annuncia l’antica Via Sacra Longobardorum: una variante della Via Francigena che da Benevento attraversava Sannio e Tavoliere fino a raggiungere la grotta di San Michele a Monte Sant’Angelo, prima di condurre in Terra Santa. Insomma entro in paese passando per l’antico tracciato di uno dei pellegrinaggi più importanti della cristianità. Tetti spioventi, case a schiera e vicoli sono gli ingredienti del centro storico che punta in alto per versanti calcarei con rampe di ogni larghezza e misura nel suggestivo quartiere de Lu Scalone. Parcheggio nella larga via della Vittoria, vicino alla chiesa Madre, dove ogni anno – durante il periodo della Settimana Santa – sfila la processione delle Fracchie. Un rituale religioso popolare che, durante il venerdì Santo, con enormi fiaccole realizzate da grossi tronchi “imbottiti” di legna, illuminano il cammino della Madonna Addolorata. La prima volta che vidi questo spettacolo dal gusto pagano, che va in scena da tre secoli, i sammarchesi mi sembrarono dei domatori di draghi perché, credetemi, una fracchia sputa fuoco e agita la coda mentre più uomini tirano catene da ogni lato colpendo le fauci piene di scintille come in una mitologica battaglia.
Per intenderci, qui a San Marco in Lamis tutti hanno a che fare col fuoco e ci scherzano pure perché “Le fiamme sono lingue, parlarci significa sentire i loro crepitii primordiali e quando il loro calore arretra, quando non senti più le guance bruciare, vuol dire che tocca a te dire la tua. Quante cose ho detto al fuoco, quanta compagnia mi ha regalato. Soprattutto al mattino presto quando tutto il paese dorme e io lavoro”. Lui è Pascal, Barbato di cognome. Per trovarlo? Semplice: allungate la testa, inspirate e seguite il profumo del suo pane appena sfornato. Se siete duri d’olfatto o raffreddati (con questa stagione ci sta), be’ chiedete di lui. Non farete in tempo a pronunciare il suo nome che vi prenderanno sottobraccio per condurvi al civico 33 di piazza Oberdan. Ogni pretesto è buono per entrare nell’Antica Panetteria Fulgaro e il perché non è difficile da intuire. Varchi la soglia e l’assedio dei sensi inizia. Focacce, panzerotti, pani e panini di ogni forma e grandezza, brioches, friselle, taralli e i biscotti d’autore fanno una processione di sculture dorate, piene di profumi e sapori che dal 1890 sono gli stessi. E come all’epoca creano un andirivieni di saluti e dialetto, sorrisi e gesti di accoglienza, perché attorno al pane non può esserci che lietezza.
Viene e va Pascal, giura che sarà la volta buona per la foto. Giunge le mani per scusarsi, china appena il capo, passa pollice e indice delle due mani sulle estremità dei suoi baffi a manubrio che per i sammarchesi, però, sono alla Dalí. Entra un anziano sulla settantina, dice buongiorno, alza la coppola per ossequiare e ordina una forma di pane da due chili. Lo guardo mentre conta gli spiccioli, è un fascio di muscoli magrissimo. Incrocia i miei occhi, allunga il mento: “Forestiero, vero?”. Annuisco. Si avvicina e con la destra stringe l’estremità della pagnotta: “Sentite che fragranza? Dopo l’ardoro, prim’ancora che il palato, assaggio il pane con le mani. Sentite, sentite come si crepa la crosta. Anche oggi Dalí ha sfornato un capolavoro”, china appena la testa per marcare la sua affermazione. “Ci vuole arte anche a fare il pane e Pascal ce n’ha ce n’ha. Merito della madre, della nonna, della bisnonna e così indietro nel tempo. Già al tempo dei briganti (qui a San Marco ce ne sono stati tantissimi) la sua famiglia materna faceva pane per questo paese. Tale e quale a questo. Non vi fate ingannare dalla mia magrezza, un chilo lo mangio da solo perché è buono come una volta. Provate per credere, cari saluti”, esce, si abbraccia con Pascal.
“Eccoci”, mi fa mentre agita le mani sprigionando polvere bianca nell’aria. “Farina farina e farina. Da bambino sono sempre impanato di farina”, ride. Ordina due caffè e continua: “Ma rigorosamente a chilometro zero e biologica. Da questo forno solo prodotti sani, come natura comanda. Non voglio fare retorica, ma questo concetto è la mia Ave Maria”. Prende un sacchetto da un chilo, lo apre, affonda le dita, le porta al mio naso, le strofina: “Senti il profumo, un po’ forte, sicuramente quello che una farina dovrebbe avere perché questo produttore, l’Agricola Piano, non raffina tanto. Pochi passaggi, come un tempo. Occorre rieducare tutti al buon cibo, alla consapevolezza che quello che abbiamo in casa, nei nostri orti, nelle nostre masserie appena fuori il paese, è la nostra vera ricchezza. Abbiamo bisogno di tornare a desiderare quello che è alla nostra vera portata, ci siamo impoveriti di valori etici e sociali cercando ricchezze diverse. Pochi costi per tanto guadagno, ma che equazione è? Come se risparmiare sul cibo sia realmente un risparmio, per me è attentare alla nostra salute. Ecco, io non voglio più questo, in realtà non l’ho mai voluto, neanche chi prima di me ha trascorso notti intere in questo posto”, perde il suo sguardo nel vuoto, gli occhi si fanno lucidi, capisco che sta pescando qualcosa dai ricordi.
Due sorsi contati al caffè, lo seguo mentre saluta a destra e manca, attraversiamo la strada, passiamo in un vicolo con donne anziane che chiacchierano sull’uscio. Entriamo nel suo laboratorio, nell’angolo ci sono sacchi di farina uno sull’altro, affonda le mani con forza: “Per anni, da quando ero bambino questo posto è stato il mio letto. Mia madre impastava e infornava, la guardavo fin quando non mi addormentavo. La farina, è il cemento col quale ho costruito i pilastri della mia vita, se sai impastarla si fanno cose buone”, ride e sforna altro pane. Ne fa una pila ed esce per strada, c’è profumo ovunque e davvero mi sembra una bel momento per fotografarlo. Lo faccio, mi piace, guarda il display, piace anche a lui.
In macchina saliamo prima al convento francescano di San Matteo, altra stazione di sosta della Via Sacra Longobardorum e, dopo pochi chilometri, siamo nel bosco della Difesa. Passeggiamo all’ombra di cerri, roverelle e carpini e nel bel mezzo del sentiero si ferma, chiude gli occhi ed esclama: “Pace! Questo è il silenzio che ogni notte, mentre il paese dorme, fa da cornice ai miei gesti antichi che un giorno, spero, possano diventare di tanti. Il mio sogno è mettere su una scuola di panificazione per insegnare a tanti a inaugurare il giorno con le voci del fuoco e del pane”. Apre gli occhi: “Stanotte lascia stare la sofficità del cuscino e vieni a scoprire quella della farina impastata con acqua e lievito madre. Poi faremo due chiacchiere con le fiamme.
Appena sforneremo, in totale silenzio, lo shock termico farà crepare la crosta che inizierà a scricchiolare. Quella è la voce del pane che ci augurerà il buongiorno. Vedrai che opera d’arte”, si arriccia i baffi.